Effetti collaterali
FABIO FALABELLALa campagna di vaccinazione da Covid 19 in Israele e i Palestinesi dimenticati dai bugiardini
Nella settimana santa che volgere al termine sovviene come moto dell’animo e quasi come istinto recondito di abitudine ancestrale volgere lo sguardo alla Terra Santa dove ebbe inizio, si dipanò e si concluse oltre duemila anni fa la vicenda terrena del Gesù di Nazareth. Una spinta che si avverte tanto più in Basilicata, dove se d’inverno i cento e più borghi che costellano la regione, arroccati su monti e colline innevati, assomigliano all’inverosimile all’immagine che abbiamo di presepi viventi, durante la stagione pasquale il paesaggio, arso, brullo, ricoperto di ulivi secolari e viti tenaci, rimanda alla mente proprio scenari che riteniamo tipici ed originali dell’antica Palestina, come testimoniato da opere cinematografiche portentose che qui hanno trovato set e location ideali, a cominciare dal “Vangelo Secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, che di questo specifico filone è stato pietra miliare. In epoca di pandemia da Covid 19 e con i luoghi sacri della cristianità chiusi al culto dei pellegrini per ragioni di contenimento del contagio da coronavirus, con le basiliche di Gerusalemme eccezionalmente vuote e silenziose, però, non indugerò con piglio da divano e pantofole su kolossal alla Ben Hur o pellicole più o meno famose che narrano la storia del Cristo risorto, in un afflato di gioia universale sovente appiccicaticcio e funzionale solo a logiche commerciali da intrattenimento o da profitto, utili all’industria dolciaria o al settore turistico dei viaggi organizzati da agenzia e di compagnie aeree che arrancano. E, se il significato più profondo di questa celebrazione religiosa divenuta festa laica sta nell’idea di resurrezione dal peccato e dalla morte, di emancipazione dalla schiavitù e di liberazione individuale e collettiva, allora la mia riflessione domenicale non può che avere ad oggetto la condizione di prigionia e subalternità vessatoria cui da decenni sono costretti centinaia di migliaia di Palestinesi dai discendenti di quello che fu il popolo eletto di Israele, divenuto oggi Stato nazione aguzzino delle popolazioni arabe del Medio Oriente. Perfettamente consapevole della spinosità e contraddittorietà dell’argomento, che pure ebbi modo di studiare e di approfondire debitamente all’università, conscio di muovermi su di un crinale intellettuale disagevole e scivoloso, quasi si trattasse di un campo minato in cui è facile saltare in aria deflagrati dopo aver commesso un passo falso, ciò nondimeno mi accingo brevemente ad esperirlo, sollecitato in questo desiderio da una narrazione stucchevole ed indigesta che, sublimata da motivi di carattere sanitario e finanziario, ha trovato eco mediatica mondiale nelle settimane passate con tanto di green card, che nemmeno nei bugiardini di Big Pharma. Risulta cioè particolarmente distonico, a mio avviso, indicare da più parti il moderno Sato nazionalista di Israele come esempio virtuoso , da seguire a livello mondiale, nella campagna di vaccinazione, che ha prodotto sicuramente risultati più che apprezzabili ma che è stata condotta secondo tipologie che definire razziste, purtroppo, ritengo e credo a giusta ragione non sia un torto alla sensibilità di alcuno, a fronte della discriminazione che, turisti occidentali a parte, hanno subìto i suoi abitanti di origine non ebrea, considerati da sempre, e a tutti gli effetti, cittadini di serie B o di serie C, se va bene, se non nemici da schiacciare e cancellare con ogni mezzo a disposizione, militare e non. Da questo punto di vista, i dati ufficiali raccontano di un’immunità di gregge raggiunta in tempi record e con passo ed organizzazione militari, dopo essersi accaparrati milioni di dosi di quello considerato il miglior vaccino sul mercato, il siero Pfizer-Biontech, e di ristoranti e caffè aperti a Tel Aviv, rinomato centro della movida internazionale, ma poco o nulla ci dicono degli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza occupate, reclusi a cielo aperto in gabbie costruite a favore dell’occupante. Se non lo sono la Cina guidata dall’apparato della dittatura comunista, del resto, o la Russia dello zar non defenestrabile del terzo millennio, l’oligarca o, meglio, il monarca Vladimir Putin, neppure Israele, al netto della pura forma, buona per i manuali accademici di scienze politiche, può essere considerato una democrazia compiuta e tantomeno una società perfetta. E ciò, appunto, per la forma intrinseca ed immodificabile, nazionalista fino al parossismo, della sua forma di stato e di governo che favorisce e tutela gli uni, gli ebrei, discriminando palesemente gli altri, gli arabi, anche nei procedimenti amministrativi e giudiziari, nelle capacità di affermazione elettorale, nelle possibilità di accesso a risorse materiali, sanità, acqua e terra, o immateriali, istruzione e diritti economico-sociali e civili, senza peraltro prendere in considerazione le fibrillazioni che ne mettono a repentaglio la tenuta del sistema, con quattro elezioni politiche negli ultimi due anni che pure non hanno risolto una crisi partitica strutturale con la destra oltranzista di Benjamin Netanyahu capace ancora di primeggiare nei seggi ma non di garantirsi una maggioranza stabile alla Knessett (l’assemblea parlamentare con potere legislativo, dall’ebraico antico). Come se, altrove, ci si concedesse il lusso di individuare a mo’ di campione per dati scientifici solo una parte della popolazione di uno stato, che so, i WASP (White Anglo Saxon Protestant) negli Stati Uniti, i Latinos a Cuba o i neri in Sud Africa, dimenticandosi scientemente con logica colpevole, negazionista e criminale degli altri. Non è questa la sede, certo, per passare in rassegna la storia antica, moderna e contemporanea della terra che va dal Sinai al Giordano e delle popolazioni, spesso in conflitto, che l’hanno abitata dai tempi e ben prima degli Antichi Romani. Né questo articolo, in alcun modo e nella maniera più perentoria e categorica, intende lasciarsi andare a pericolose interpretazioni o scadere in insopportabili considerazioni dal sapore antisemita: è bene sottolinearlo, per non lasciare adito a dubbi e perché spesso, ahimè, l’argomento, opportunamente ribaltato in maniera obliqua e speculare con una operazione degna del peggior Machiavelli, viene utilizzato precisamente in tal senso: vale a dire, che non si può muovere critica alcuna al regime israeliano senza essere tacciati, indebitamente ed inopportunamente, di quel crimine gravissimo che rimane l’antisemitismo. Un parallelismo che, complici le Grandi Potenze europee, fa il gioco sporco degli interessi dell’occupazione israeliana a danno dei Palestinesi. Ne siano esempi, la proclamazione unilaterale di Gerusalemme, città culla delle tre religioni monoteiste e capitale indivisibile di due Stati secondo accordi internazionali mai rispettati e continuamente elusi e disattesi, quale sede governativa dello Stato di Israele, col placet nordamericano dell’amministrazione Trump, o un giro d’Italia in bici di qualche anno fa, cominciato inopinatamente con una tappa da Gerusalemme a Tel Aviv o viceversa, vado a memoria, a legittimare l’esistenza dello stato di un solo popolo, negando quella degli altri. Si ricordi, ancora, che la stessa bandiera dello Stato di Israele, con il bianco racchiuso tra le strisce blu dei due fiumi sacri, esplicita compiutamente, cristallizzandola, l’idea di dominio derivante dalla cultura sionista, che non ha mai inteso dividere, o condividere con altri la terra promessa. Perciò, se al tempo dei Vangeli e nella tradizione biblica e israelitica da Vecchio e Nuovo Testamento, Paolo di Tarso, anch’egli ebreo, conquistatore munito di spada tagliente ma folgorato sulla strada di Damasco, soleva provare a convertire al cristianesimo i pagani a suon di suadenti e concilianti lettere ai Filistei, oggi, i soldati della Tzva HaHagana e dell’IDV (Israel Dfence Forces), preferiscono carri armati e caterpillar, per bombardare villaggi, eradicare ulivi dorati col supporto dei coloni cancellando l’identità di un altro popolo, demolire edifici e radere al suolo le case di fortuna costruite dai Palestinesi considerati malamente e a torto terroristi e non partigiani. Con buona pace, s’intende, del simbolo universale delle palme e della convivenza pacifica tra i popoli predicata dal Gesù uomo ed annunciata dal Cristo ultraterreno come chiave di accesso al regno dei cieli. Pur non volendo essere retorici o banali, come se parlassimo da un pulpito qualsiasi di una veglia pasquale o durante una messa, se Pasqua dev’essere, nel 2021, che lo sia o dovrebbe esserlo per tutti, ladroni o presunti tali inclusi, senza scegliere nessun nuovo Barabba e venerando qualsivoglia Dio, badando bene di non ammiccare al vitello d’oro, meglio l’uovo della Kinder. Se l’epopea di Mosè attraverso il Mar Rosso apertosi prodigiosamente per liberare gli ebrei dal giogo dei faraoni egizi dovesse e potesse insegnare qualcosa, sarebbe desiderabile ed auspicabile che una medesima possibilità di rinascita fosse concessa a quanti, in Palestina e dovunque nel mondo, soffrono la barbarie della guerra perenne a bassa o media intensità, della violenza, dei soprusi quotidiani e ripetuti, delle angherie fisiche e psicologiche da chiunque siano commessi. Affinché torni la luce, non quella delle fotoelettriche degli elicotteri da combattimento e torni la vita a Betlemme come in Iraq, dove, è notizia di oggi, un nuovo Gesù Bambino, nato anche lui in qualche mangiatoia da stalla rimediata alla fortuna, è venuto al mondo con tre peni, primo ed unico caso del genere, la scienza dirà se per i veleni degli ordigni scagliati da decenni su Baghdad e dintorni da dittatori sanguinari, banditi senza scrupoli ed eserciti d’occupazione non meno vili. Pronti alle critiche e alla discussione, ad un dibattito aperto, fondato e scevro da ideologie fuorvianti, con gli occhi dei popoli del Sud del globo, degli emarginati, dei senza voce o passaporto, auguro alle nostre lettrici ed ai nostri lettori un giorno pieno di desideri di fiducia nel prossimo, unica condizione questa, capace di sublimare la nostra natura animale rendendoci più donne e più uomini, liberi e dignitosi, e, pertanto, più simili all’idea di divinità che abbiamo nell’animo o che sapientemente ci siamo costruiti nella ragione. Quell’idea di Dio per cui tuttora si combatte, forse, che il filosofo tedesco Nietzsche considerava morta e che il suo omologo Schopenhauer compiutamente argomentava, di cui cantava Guccini con spirito di rivolta sessantottina, ma profondamente emotiva e coinvolgente, che ognuno di noi possa scegliere liberamente di venerare in pubblico o portare dentro di sé in privato, di declinare a proprio piacimento, purché ciò avvenga nel rispetto e nel riconoscimento dei diritti altrui, anche a vaccinarsi.