Mamma ho perso l’aereo
FABIO FALABELLALa vicenda del dissidente Roman Protasevich e un personale affresco della Bielorussia di Lukashenko
La vicenda dell’arresto, o sarebbe meglio dire, forse, del rapimento del dissidente Roman Protasevich, catturato a margine di un dirottamento di un volo Boeing 737 della Ryanair sulla tratta Atene-Vilnius grazie all’intervento congiunto di quattro agenti dei servizi segreti imbarcati sull’aereo e di un caccia dell’aeronautica militare MIG-29 alzatosi appositamente in volo, ha riportato prepotentemente la Bielorussia alla ribalta della cronaca internazionale nei giorni scorsi. Ciò accade dopo le proteste insistenti e continuate che hanno visto coinvolta gran parte della popolazione civile, che sono cominciate ed hanno avuto luogo nel Paese nelle ore, nelle settimane e nei mesi successivi al 9 agosto 2020, continuando poi per l’intero autunno, quando il presidente dittatore Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnka, ex militare ed esponente del Soviet Supremo ai tempi dell’URSS, in carica dal 20 luglio del 1994, è stato rieletto al vertice della piccola repubblica dell’Europa Orientale per il sesto mandato consecutivo. Manifestazioni popolari diffuse e pacifiche, passate alla storia con il nome di rivoluzione delle ciabatte per il carattere informale, improvvisato e quasi domestico che le ha caratterizzate, interessando il tessuto sociale tutto: giovani, famiglie, anziani e nonne determinatissime, che sono state represse violentemente e con forza bruta dagli sgherri in divisa del regime, la milizia agli ordini di Lukashenko (questa la traslitterazione europea dal Cirillico del suo cognome). L’oppositore e attivista Protasevich, da diverso tempo in esilio forzato per ragioni di sicurezza ed incolumità personali, del resto, agli occhi di quella che possiamo definire la dittatura bielorussa e al netto di formali ammanti costituzionali e legittimanti, in qualità di fondatore e gestore di un canale online di informazione denominato “Nexta”, si è reso colpevole proprio di aver dato a quelle manifestazioni ed a quelle proteste eco mediatica a livello globale, consentendo peraltro agli oppositori interni di Lukashenko di potersi coordinare e tenersi informati attraverso un canale digitale messo a supporto delle mobilitazioni che tanto hanno irritato il governo. Un apparato di potere rigido e consolidato, al vertice di uno Stato illiberale ed autocratico, gestito con metodi arcaici, imbottito di soldati che dispongono delle libertà altrui a proprio piacimento e connotato da caratteri peculiari e particolarissimi che affondano il senso, le radici, presunte giustificazioni e ragion d’essere nell’autocrazia sovietica tipica e declinata alla peggiore maniera staliniana. Dopo l’arresto e la detenzione in un centro non meglio specificato di Minsk a disposizione del servizio interno, che lì prende ancora il nome del KGB che fu, malamente ed intollerabilmente giustificati adducendo a motivazione la sicurezza dello Stato al fine di preservare l’integrità del regime, scricchiolante e scosso nel profondo dalla già menzionata rivoluzione delle ciabatte, colorata di drappi, vessilli e bandiere bianche e rosse della tradizione bielorussa in opposizione al rosso-verde imposto dal governo con l’ascesa di Lukashenko al potere, Protasevich è riapparso in tv, visibilmente malconcio e presumibilmente a causa dei pestaggi subìti dai suoi aguzzini custodi, per rassicurare sulle sue condizioni di buona salute, in perfetto stile da processo sommario cui, all’epoca delle purghe volute da Josif Stalin nel secolo passato, venivano costretti gli epurati dall’ideologia del partito unico. Almeno formalmente, l’Europa occidentale e quello che si autodefinisce il mondo libero e democratico, Stati Uniti intesta, non hanno indugiato nel prendere contromisure che vanno dalle sanzioni economiche, per ora sulla carta, all’interdizione dello spazio aereo sui cieli della Bielorussia, disposizione sposata ed adottata anche da alcune compagnie aeree in risposta ed in autotutela per rappresaglia, in questo frangente decisamente giustificata, nei confronti della ingiustificabile violazione delle norme vigenti del diritto internazionale ad opera del regime di Minsk, non nuovo, peraltro, alla sistematica violazione dei diritti umani, sostanzialmente negati, in primis, ai cittadini bielorussi. Il caso singolare e per alcuni aspetti imprevedibile, se non a mo’ di congettura da esercizio retorico ed ipotetico in uso nelle stanze segrete di cancellerie e diplomazie, ha riportato d’un tratto la Repubblica di Belarus, questo il nome ufficiale del piccolo Stato ex sovietico, sostanzialmente sconosciuto alla maggioranza della pubblica opinione anche di casa nostra, sotto i riflettori ed al centro del dibattito politico da Bruxelles a Washington, passando per Londra, Berlino e Parigi. In un clima da guerra fredda che tanti commentatori ed addetti ai lavori ritenevano sostanzialmente archiviato e consegnato ai manuali di scuola e che ha visto, altresì, negli ultimi tempi, una recrudescenza segnalata dalle crescenti tensioni con la Russia del presidente, autoritario e rieletto all’infinito anch’egli, Vladimir Putin, principale sponsor e protettore di Lukashenko, tanto da arrivare alle espulsioni reciproche di personale diplomatico e d’ambasciata con gli USA a mo’ di botta e risposta. Senza dimenticare l’episodio altrettanto angoscioso e preoccupante di spionaggio a suon di soldi e rivelazione di segreti militari attraverso la cessione di documentazione classificata che, qui da noi, ha comportato l’espulsione come persone non gradite di due ufficiali delle Forze Armate russe e l’arresto in flagrante di un ufficiale della Marina italiana accusato di tradimento. Roba da cortina di ferro appunto, scabrosa ed emblematica delle frizioni che stanno sconvolgendo e mettendo a soqquadro lo scacchiere delle relazioni internazionali nei rapporti tra Est ed Ovest, pure in conseguenza della crisi determinata dalla pandemia di coronavirus ancora in corso e che vede le grandi Potenze, vecchie e nuove, confrontarsi in uno scenario da Risiko per il mantenimento o la conquista di rispettive e/o nuove sfere di influenza. In questo quadro, la Bielorussia svolge un ruolo fondamentale, ed imprescindibile per Vladimir Putin, per la posizione geografica altamente strategica, al confine con la Polonia ed immediatamente a ridosso dei confini della UE. Un Paese poverissimo, un sud del mondo sui generis, almeno per le condizioni economiche in cui versa la stragrande maggioranza dei suoi abitanti, costretta alla remissività consapevole ed alla acquiescenza silente da salari da fame – quello medio si aggira intorno ai 200, 250 dollari al mese, ndr – e dalla mancanza di prospettive di futuro dignitose, fossero anche quelle delle emigrazione forzata all’estero, vietata per legge se non previa concessione di diritto all’espatrio di pertinenza del ministero degli Interni bielorusso. E che, però, oltre ad essere un vero e proprio satellite di Mosca, da sempre, è costituito da una porzione di territorio europeo attraversata dai principali oleodotti e gasdotti che dai giacimenti della sconfinata steppa russa portano il petrolio ed il metano fin dentro i nostri porti e le nostre abitazioni ed in quelli delle altre nazioni europee. Per queste ragioni, sarà difficile condurre a vittoria la partita contro l’establishment di Lukashenko, provando destabilizzarne la presa sulla società, al fine di ricondurlo a più miti intenzioni, tantomeno assicurare alla popolazione bielorussa una vita individuale e collettiva più libera e decorosa, men che meno, ancora, riportare Roman Protasevich fuori dalle patrie galere e ricondurlo a casa, nel luogo dove aveva scelto di vivere, pur suo malgrado osiamo immaginare. Il tiranno di Minsk, infatti, è duro a morire, politicamente, s’intende, e lo ha confermato, se ciò potesse essere messo in dubbio in qualche modo, con la sparizione e l’incarcerazione forzata di centinaia di oppositori, durante e dopo la più volte richiamata e, purtroppo, sconfitta, rivoluzione delle ciabatte. Né affermerei con sicurezza che una mobilitazione internazionale in tal senso, per chiedere e pretendere, attraverso una vasta e plurale mobilitazione di consenso, il rispetto dei diritti civili e la liberazione di Protasevich, possa avere miglior esito di quanto sortito finora; benché, in coscienza, io la ritenga necessaria, indispensabile ed irrimandabile, per quanto ho a cuore quel Paese che mi ha visto ospite quale specializzando per una borsa di studio post-universitaria ed una ricerca svolta presso l’Ambasciata d’Italia nella Repubblica di Belarus subito dopo la mia laurea in Scienze Politiche: doverosa, sulla scorta di quanto succede per Patrick Zaki, lo studente dell’Alma Mater di Bologna detenuto in Egitto, ed improrogabile per altri cento e più oppositori, attivisti e dissidenti reclusi ai quattro angoli del globo e prigionieri di regimi autoritari. Si pensi, in proposito, e si faccia qualcosa magari per cambiarle o mitigarle, alle circostanze attuali subìte della popolazione civile birmana, nello stato di Myanmar nelle mani dei militari assassini e golpisti. Posso scriverlo con rammarico ed in tutta onestà intellettuale, ripensando esattamente al tempo trascorso in Bielorussia tra ambasciate e palazzi del potere, che bene e vividamente impresse in me il significato di cos’è una dittatura di fatto, pur travestita e travisata da democrazia, lasciandomi intendere quanto fosse importante essere cittadino europeo, avere e godere delle garanzie di cui beneficia uno straniero protetto, almeno parzialmente, da un passaporto del valore di quello concesso dallo Sato Italiano. Troppi, a tal riguardo, sarebbero in questa sede gli accadimenti che potrei essere indotto a raccontare per sostenere e valorizzare la tesi fondante ed assertiva di questo editoriale, vale a dire, ripeto, che Lukashenko è un dittatore così singolare, rappresentando un fenomeno così caratteristico e straordinario, nel cuore dell’Europa, da apparire per certi versi fuori dalla Storia e perciò essere maggiormente pericoloso ed intollerabile. E i Bielorussi, a tutti i livelli, di ogni ordine e grado, ne sanno qualcosa. Solo come pedice e appendice di questo pezzo mi occorre richiamare alla mente e mettere per iscritto per amor di verità e giustizia talune delle vessazioni e dei maltrattamenti perpetrati dai militari ed a cui ho personalmente assistito, innumerevoli ed indigesti, e finanche agli avvenimenti di cui, quasi inconsapevole all’inizio della mia permanenza e decisamente sorpreso, malvolentieri, sono stato protagonista. Come quando, basti questo fatto, su tutti, appena giunto in Bielorussia, fui arrestato e portato in cella dagli agenti della milizia citata in precedenza per aver ripreso con una telecamera amatoriale uno dei palazzi del presidente padrone senza saperlo, senza che a nulla, fin quando non venne a liberarmi, reclamando a gran voce per l’accaduto, il Console italiano di allora in persona, servissero le mie rassicurazioni che non di un lavoro di intelligence si trattasse, bensì di immagini registrate per una radio che avevo fondato all’Orientale di Napoli con alcuni amici da universitario. Né che, appunto, fossi ospite formale dell’Ambasciata italiana, particolare che non fece altro che peggiorare la mia posizione e, subitaneamente, far precipitare gli eventi. Così come ricordo, con altrettanto e maggiore disgusto, che studenti, conoscenti, persone normali e non avevano paura persino a pronunciare invano il nome del dittatore, finanche in privato, nel chiuso di una stanza o delle quatto mura di una dimora. Ricordo gli accademici incriminati per l’uso della lingua bielorussa nei corsi tenuti negli atenei di Stato, in palese contrasto con i diktat di regime che prescrivevano rigidamente il Russo nelle conversazioni ufficiali, e una volta in cui centinaia di ragazzi furono ammanettati con un intervento vigoroso di poliziotti e soldati per aver osato gettare in terra, in pieno centro cittadino e come forma di protesta tenue e soffusa, i gelati appena acquistati nel McDonald’s più importante di Minsk, in via Lenin. La Bielorussia, concludendo, mi apparve come un Paese in cui si fosse fermato il tempo, cristallizzato a prima della caduta dell’URSS: requisito che, ovviamente, mal si concilia con qualsivoglia sforzo per un’informazione libera e fluida, veloce, come è possibile fare sui social network: come quella di cui si è reso colpevole l’attivista dissidente Roman Protasevich, di cui, ciononostante, ci ostiniamo a reclamare affannosamente la liberazione.