Moriremo tutti democristiani?
FABIO FALABELLAL’elezione a segretario di Enrico Letta e la nuova parabola del Partito Democratico
Classe 1966, pisano di nascita ma romano di adozione, esponente e enfant prodige di una delle famiglie più importanti del panorama capitolino, di quelle che contano nei salotti buoni e nei palazzi delle istituzioni (suo zio Gianni è stato a lungo il portavoce, il consigliere personale ed il custode dei segreti più intimi, personali e pubblici, del già cavaliere di Arcore, Silvio Berlusconi, mentre suo nonno era podestà sotto il regime fascista), il neo eletto segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, vanta una lunga carriera politica e diversi incarichi accademici di prestigio, tra cui quelli di professore presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’École des hautes études commerciales di Parigi e l’Istituto di Studi Politici Sciences-Po, sempre nella capitale francese. Ricordato da tutti per essere stato vittima e destinatario ad un tempo della rassicurazione parricida di Matteo Renzi divenuta proverbiale nel vocabolario parlamentare e governativo, “Enrico stai sereno”, e per la conseguente scena della campanellina al gelido passaggio di consegne tra i due toscani alla guida di Palazzo Chigi nel 2014, appena insediatosi, poche settimane fa, ai vertici della segreteria di via Sant’Andrea delle Fratte, l’ex presidente del Consiglio dei Ministri, votato quasi all’unanimità più che bulgara da tutte le correnti interne sebbene cercasse, al contrario, «la verità delle posizioni differenti», ha sin da subito provare ad imporre una sterzata all’immagine di perenne, congenita e strutturale litigiosità fratricida dei Dem ed alla parabola discendente cui sarebbero stati senz’altro condannati nei sondaggi ed alle urne alle prossime consultazioni dopo aver bruciato l’ennesimo segretario, Nicola Zingaretti, alla media per nulla invidiabile di circa uno ogni due anni. Intervistato da Lilli Gruber venerdì 26 marzo scorso nella trasmissione televisiva di approfondimento “Otto e mezzo”, in onda in prima serata su La 7, si è detto molto «determinato» a svolgere in maniera efficace ed energica il proprio mandato e deciso a fare del suo partito la forza leader capace di fungere da punto di aggregazione di una larga coalizione di centro-sinistra alleata coi Cinquestelle 2.0 di Giuseppe Conte, in grado di competere con la destra sovranista di Salvini e Meloni e di vincere le elezioni politiche ed amministrative, a cominciare da quelle per la carica di sindaco di Roma, al fine di governare il Paese. Senza indugiare in questa sede sulla retorica di quanto fosse appagante la sua vita fino al 14 marzo, data della nomina a segretario del PD, nelle accademie universitarie di Parigi, immerso peripateticamente a mo’ di novello Aristotele tra libri interessanti e studenti stimolanti che molto gli avrebbero insegnato, che lo stesso Letta amava altresì ribadire ad ogni occasione buona e tanto più gradisce farlo adesso per sottolineare di essere stato chiamato e quasi invocato a bere l’amaro calice di guidare uno dei partiti più rissosi che la storia delle scienze politiche nostrane possa ricordare, giova per altro verso sottolineare che, a nostro avviso, Enrico, nome di per sé impegnativo per un segretario di un partito progressista alle nostre latitudini, tanto più a fronte delle sue origini in parte sarde, come per Berlinguer, è personalità di spessore ed uomo di cultura, capace, europeista convinto e figlio della prima generazione del programma Erasmus, interlocutore gradevole e preparato e, almeno in apparenza, sincero ed intellettualmente onesto. Profondo conoscitore dell’Economia e delle scienze sociali, conversatore decisamente più fervido e ferrato nelle lingue straniere, Inglese e Francese su tutte, ovviamente, del capo indiscusso di Italia Viva e, supponiamo, suo eterno rivale anche nei lustri a venire, per non dire dello scarto che lo separa in tal senso dal “grillino” Luigi Di Maio, riconfermato Ministro degli Esteri pure nel governo Draghi, dopo il Conte bis, a condurre le sorti della Farnesina (sic!), Letta non ha perso tempo per indicare un vasto programma di riforme interne e per l’Italia che ha in agenda e che, ci venga passata l’espressione, dice di voler mettere in campo, passando all’azione. Tra le battaglie intraprese e già vinte, al netto di legittime interpretazioni dietrologiche avverse e diverse, gli va ascritta senza dubbio quella sulle “quote rosa”, espressione foriera di fraintendimenti ed inganni, che poco ci piace ma che userò per brevità descrittiva, con la nomina di Irene Tinagli quale coordinatore della Segreteria nazionale del Partito Democratico, rimpinguata di donne nelle cariche più importanti, e di Debora Serracchiani e Simona Malpezzi come capigruppo alla Camera e al Senato, senza dimenticare la presidente del partito, la giovane bolognese Valentina Cuppi, sindaca dal 7 giugno 2019 di quella Marzabotto dove i nazisti fecero strage di Italiani durate la Seconda Guerra Mondiale. I commentatori più maliziosi potrebbero obiettare che la decisione di Letta sia stata dettata dalla necessità di far fuori, politicamente s’intende, o quantomeno di marginalizzare i potenti capi-corrente, tutti uomini, con cui dovrà vedersela nella conduzione del partito e nella assunzione delle scelte importanti di linea programmatica, ma tant’è; altri, come ha fatto del resto nel programma già menzionato in precedenza l’editorialista de “Il Fatto Quotidiano” Antonio Padellaro, che si sia stata un’operazione meramente di facciata, per nascondere difficoltà palesi ed attutire irrimediabili frizioni, adducendo a ragione la necessità di premiare il merito e non una donna purché sia, cui peraltro, ribaltando l’interpretazione, il segretario del PD ha risposto che, qualora si fosse trattato d uomini, invece, nessuno si sarebbe formalizzato ed attardato sul purché sia, alludendo in tal senso ad una impostazione viziata da un certo maschilismo latente da parte del collega giornalista e che, parzialmente, condividiamo nella sostanza. Tra le sue prime mosse sulla scacchiera del campo progressista nostrano, ancora, non può passare inosservato l’incontro a quattr’occhi col chief in charge in pectore del M5S, fortemente voluto da Beppe Grillo in persona a costo di una lacerate separazione con i dirigenti della piattaforma Rousseau, Casaleggio jr in primis, per discutere delle premesse necessarie per un’alleanza stabile tra le due principali forze politiche dello schieramento avverso al centro destra, evocando, parafrasandola in senso opposto, una celebre immagine veltroniana di qualche anno fa, senza nondimeno celare l’intenzione di fare del PD il perno ed il cardine di una coalizione che debba includere, nella visione propria di un altro ex segretario, Pierluigi Bersani, oggi tra le file di Articolo 1 insieme con il ministro della Sanità Roberto Speranza, tutte le forze sociali sinceramente riformiste che animano, talora in modo carsico apparendo di tanto in tanto, si guardi in proposito all’esperienza delle cosiddette ed auto-definitesi “Sardine”, il tessuto sociale e culturale nel panorama politico del versante progressista (e vorremmo dire, anti-sessista, anti-liberista, anti-militarista e antifascista). Poco avvezzi alle lodi con capo incensato da proni servitori di fantomatici salvatori della Patria o delle sorti di questa o quella forza politica, per di più non schierati a favore di nessun partito come vogliamo essere nella redazione di questo giornale, non intendiamo prodigarci a favore di un’agiografia incondizionata e fallace, come quella tributata a Draghi dal mainstream dei media di casa nostra, del professore con occhiali e camicia un tempo frequentatore assiduo di “Propaganda live” di Diego Bianchi & CO. Né, del resto, riprendendo il titolo di questo articolo e memori della formazione e della storia personale di Letta, d’un tratto, abbiamo inteso morire tutti democristiani, citando un adagio un tempo fortemente in voga qui da noi tra significati strumentalmente traslati, alterne vicende ed opposte fortune. Ciò che ci preme affermare con profonda convinzione, però, è che una rigenerazione in chiave sinceramente democratica e riformatrice del PD, che pure uno dei suoi più illustri fondatori, il filosofo Massimo Cacciari, ha sempre considerato un aborto politico definendolo spesso un partito nato morto per non aver saputo condurre a sintesi le anime e le ideologie che ne avevano portato alla gestazione, è necessaria, improrogabile ed auspicabile in un’ottica dell’alternanza e, soprattutto, dell’alternatività ad un centro destro scivolato ormai lungo il pericoloso crinale di uno sciovinismo nazionalista tendenzioso e preoccupante, sebbene sovente incoerente e capzioso e variamente declinato tra Lega, Fratelli d’Italia e quel che resta di Forza Italia. E lo sarebbe maggiormente per chi, per vissuto e propensione professionale, come chi scrive, non si è mai considerato riducibile né riconducibile a quella formazione preferendo, da sempre, la militanza di vecchi scarponi e penne mezze consumate radicati nell’antagonismo sociale e professionale e sostanziati dall’ineludibile ed innegabile esistenza preminente del conflitto e dell’appartenenza di classe. Nella persuasione tanto più cogente che, nella prospettiva poco edificante e tantomeno allettante di invecchiare radical chic o soccombere al qualunquismo del vale tutto ed il contrario di tutto moltiplicato esponenzialmente dai social network da selfie tipico dei giorni nostri ed intriso di un maleodorante alone neo-fascista, sia meglio accettare la scommessa sfidante di rischiare di morire democristiani per provare a continuare a dire, sperimentare e scrivere qualcosa di sinistra. Se a questo scopo dovesse e potesse servire anche il rimescolamento di carte sul tavolo e di posizioni nell’arco parlamentare, politico e della pubblica opinione che l’elezione a segretario del Partito Democratico di Enrico Letta potrebbe determinare o favorire, ben vengano la sua nomina ed il suo ritorno, purché questo non implichi un appiattimento al ribasso di idee, proposizioni e proponimenti, a cominciare dalla rispolverata volontà di mettere finalmente mano allo ius soli o allo ius culturae, con una legge ad hoc più volte bloccata nei meandri di Montecitorio o di Palazzo Madama che tuteli finalmente, attribuendo loro i giusti diritti civili e politi compendiati e previsti nella nostra Carta Costituzionale, agli immigrati di seconda generazione o ai figli di migranti nati in Italia. Siamo convinti che ne sarebbe contenta, orgogliosa e fiera, anche Sara Gama, la validissima calciatrice e capitano della Nazionale di calcio femminile divenuta ormai un simbolo di emancipazione ed affermazione dalle Alpi alle isole, per chiunque abbia a cuore davvero le sorti della nostra società.