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FABIO FALABELLADel compleanno della Repubblica che non abbiamo saputo vaccinare dall’ipocrisia e dal malcostume
La giornata in cui se ne celebra il 75esimo anniversario, da quel referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 che, per certi versi in maniera inaspettata, cambiò la storia, sicuramente quella costituzionale del nostro Paese costringendo poi all’esilio i membri di casa Savoia, vede la nostra Repubblica non ancora vaccinata e men che meno immune da talune caratteristiche deteriori che la contraddistinguono, caratterizzando al tempo stesso in modo peculiare il costume e l’ars vivendi di noi Italiani. Basterebbe, in tal senso, una breve riflessione sulle polemiche scatenate nelle ultime ore dal caso Brusca, vale a dire la scarcerazione per fine pena di uno dei peggiori, criminali e sanguinari mafiosi che, alle nostre latitudini, il codice penale ricordi e compendi, per sostanziare questa proposizione a mo’ di esempio e rendere plasticamente uno spaccato esauriente ed esaustivo dei limiti che la nostra società non riesce, ahinoi, a superare. Siamo, infatti, a mio avviso, uno Stato ed un popolo il cui peggiore difetto è costituito dalla ipocrisia imperante in ogni dove, su qualsivoglia argomento, in qualsiasi buona occasione per mettere le mani avanti, o lavarsele del tutto alla Ponzio Pilato, incapace di ammettere colpe, definire responsabilità e correggere gli errori e/o i misfatti di cui siamo contemporaneamente artefici, complici e vittime. Avulsi dal senso comune, refrattari, come siamo, al rispetto del bene pubblico, sordi ad ogni imperativo o finanche invito alla tutela ed alla valorizzazione della collettività che solo per un attimo esuli ed ecceda il perseguimento egoistico del “particulare” teorizzato da Guicciardini secoli orsono, ripreso con la tesi sul familismo amorale che ci descrive e definisce perettamente dall’antropologo Edward C. Banfield. In proposito, è bastato che il già citato Giovanni Brusca, provo ribrezzo a scrivere il suo nome ma tant’è, varcasse le porte del carcere di Rebibbia dopo venticinque anni di reclusione per numerose condanne ed un sostanzioso sconto di pena per buona condotta e per la collaborazione avviata con l’autorità giudiziaria in veste di pentito, per dare il la al concerto stonato e dissonante di dichiarazioni strumentali ed esternazioni sul tema giustizia mal espresse ed infondate, interessate, dei politici dell’intero schieramento parlamentare, nessuno escluso, divisi, al solito, come su di ogni questione e come se, tra tifosi al bar, si parlasse o si commentasse una partita di calcio, tra quei Guelfi e Ghibellini di tradizione dantesca e tanto cari a Totò, che vi ironizzava su in una delle sue più celebri pellicole. E così, dimenticando volutamente che siamo in uno Stato di diritto e non di polizia, dove vige o dovrebbe vigere la legge al di sopra di ogni istinto e qualunque fascinazione contingente e di parte, da Salvini, ovviamente, a Tajani di Forza Italia, al segretario del Partito Democratico Enrico Letta, è cominciato immediatamente un rutilante tambureggiare con dichiarazioni roboanti espresse via tweet sulla costernazione provocata dalla liberazione di Brusca, ripeto, prevista per legge, contemplata, voluta ed addirittura favorita e promossa dalla normativa vigente. Una legge ideata e sponsorizzata dall’indimenticato magistrato siciliano Giovanni Falcone, che proprio Brusca nella strage di Capaci fece saltare in aria riducendolo a brandelli col tritolo insieme con la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, premendo il tristemente famoso tasto del telecomando che aveva tra le mani. Una norma che, nelle intenzioni del giudice antimafia divenuto eroe, perché “l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa”, così proferì in una delle sue ultime interviste prima di essere brutalmente assassinato, quella norma, sulla scorta dell’esempio della legislazione statunitense e dell’esperienza maturata decenni prima nella lotta al terrorismo rosso e nero, serviva proprio a stanare dall’angusto e impenetrabile covo dell’omertà assassini e presunti uomini d’onore per farli parlare e, anche grazie ai loro riscontri, perseguire per via giudiziaria una delle più potenti, singolari, originali, originarie e radicate tra le organizzazioni a delinquere dell’intero pianeta, sfruttando, utilizzando i pentiti come testimoni contro altri mafiosi. Intuizione geniale, questo va sottolineato, che, a partire dal pentimento di quel signore passato alle cronache di allora col nome di don Masino, il narcotrafficante Tommaso Buscetta, permise di scardinare dall’interno la cupola di Cosa Nostra e di portare all’attenzione ed a conoscenza degli inquirenti particolari e fatti di cui mai avrebbero saputo, senza quella legge che tutelava i pentiti, fosse pure protagonisti dei peggiori misfatti immaginabili e persino inimmaginabili, come nel caso di “u verru”, il porco in vernacolo isolano, di cui sto provando ad argomentare, appunto. Vale, sul tema, ciò che ha dichiarato la sorella di Falcone, una signora matura e avanti con l’età ormai, che, immagino con enorme strazio e disgusto provati in corpo ma con l’eleganza che la descrive, ha chiosato essenziale e perentoria come su di un’epigrafe, quasi senza batter ciglio davanti alle telecamere e ai giornalisti che la intervistavano: «Addolorata ma è la legge», dimostrando per l’ennesima volta di possedere un senso civico e, lei sì, della giustizia intesa come rispetto della legge, sconosciuto a molti, a troppi dalle nostre parti. Ciò nonostante, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha commentato con un laconico e disinformante interrogativo, «Che giustizia è questa», Letta ha avvertito e riferito via social network di «Un pungo allo stomaco» che avrebbe ricevuto, mentre il coordinatore azzurro Tajani ha comunicato di una notizia che «Fa venire i brividi». Come se, nel Paese dell’ipocrisia diffusa e intransigente e dal malcostume inestirpabile e imperante su cui ho improntato questa riflessione, di natura sociologica prima che altro, nessuno di loro sapesse, nei giorni precedenti, che Brusca stesse per essere scarcerato. E come se tutti ignorassero la circostanza che, in virtù di quel referendum del 2 giugno di settantacinque anni fa evocato nell’incipit di questo editoriale, nella Repubblica parlamentare in cui viviamo le leggi le fa e/o le modifica o le abroga il Parlamento, cioè loro stessi e i loro sodali, Camera e Senato in cui bivaccano da tempi immemori, per cui, senza ostentare malriposti sgomento e disappunto adesso, buoni a suscitare emozioni di pancia e ad ammiccare al rispettivo elettorato di riferimento di ciascuno di essi a seconda dei toni utilizzati e sapientemente stabiliti con i professionisti, si fa per dire, della comunicazione che ne curano gli uffici stampa, se avessero voluto davvero impedire che Brusca uscisse di galera avrebbero potuto agire in tal senso, attraverso una norma di legge specifica e opposta o quantomeno più restrittiva di quella predisposta previo suggerimento e approvazione di Falcone ed altri eminenti giuristi e conoscitori della materia. In un Paese civile si farebbe e si sarebbe fatto così o, almeno, si sarebbe scelto il silenzio in un contesto sicuramente, emotivamente, pesantissimo per i parenti, innumerevoli ma da tenere a mente tutte e tutti, delle vittime delle stragi e degli assassini di mafia, per i quali, certamente, non sarà stato un bel sentire l’atto di ascoltare del fine pena per un criminale, carnefice dei loro affetti più cari. Lo scrivo consapevolmente, senza cedere al garantismo di facciata, senza scivolare lungo il pericoloso crinale di schierare questo giornale tra i fautori del giustizialismo, come i Cinquestelle della prima ora redenti con un tratto di penna secondo Luigi Di Maio, e del garantismo stesso, troppo spesso mal interpretato in Italia con l’indebito significato di sfuggire ai processi e alla Giustizia con la G maiuscola. Solo per stigmatizzare la doppiezza, la finzione, il perbenismo, la falsità, il conformismo, la simulazione e il convenzionalismo che, anestetizzandoci, lor signori vorrebbero propinarci ed imporci a suon di insopportabili ed indigeribili annunci. Piuttosto, vorrei dirgli, si metta finalmente mano ad una riforma della giustizia continuamente evocata in senso partigiano e capace, in Italia, di assicurare il diritto, garantire ai cittadini un giusto processo, e in tempi ragionevoli, e finanche di imporre l’assunzione di responsabilità a quei magistrati che sbagliano o delinquono, ne ha fornito sapientemente una rassegna l’illustre collega Milena Gabanelli nella sua rubrica intitolata “Dataroom” ed ospitata sulle pagine del Corriere della Sera ogni lunedì, e che, così facendo, vituperano ed offendono l’onore di toghe integerrime ed immacolate quali quelle indossate da personaggi del calibro di Falcone e di Paolo Borsellino. Indugiando per un istante sulle consonanti e, nello specifico, esattamente sulla “g”, passando repentinamente dal sacro al profano senza timore di snaturare il registro stilistico di questo pezzo, come non menzionare quanto accaduto ieri a Roma, al disvelamento di una targa commemorativa per l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, alla presenza delle Istituzioni e delle più alte cariche dello Stato, con Sergio Mattarella ed i vertici di Senato e Camera, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, oltre alla sindaca dell’amministrazione capitolina Virginia Raggi. È successo che sulla lastra di marmo rimasta coperta per ore da un drappo giallorosso nell’imbarazzo generale mancava una lettera nel secondo nome di Ciampi, cui doveva essere intitolato un largo in un quartiere della città eterna. Una figura barbina, da repubblica delle banane, giustificata maldestramente con una presunta e falsa ammaccatura che avrebbe scheggiato la targa, poi sostituita con apposita correzione, per cui qualche esponente pentastellato vicino alla prima cittadina ha parlato di complotto per ostacolarne la ricandidatura e la corsa alla riconferma in Campidoglio. Oso evidenziare che, se complotto c’è stato, è stato perpetrato contro il dizionario della Lingua italiana e che il misfatto, altresì, è dovuto all’incuria e all’ignoranza, all’approssimazione che pure ci caratterizzano platealmente, acuite da quel “downgrading” generalizzato e generalizzante, vale a dire da quello scivolamento ed appiattimento verso il basso di tutta la nostra società inclusa la pubblica amministrazione verosimilmente, di cui con amaro sarcasmo ha parlato Pierluigi Bersani, ancora ieri, nella trasmissione “Di martedì” condotta da Giovanni Floris e in onda su La7. Non mi soffermerò, al contrario su uno degli episodi più eclatanti della cronaca di queste settimane, quello della funivia del Mottarone, a Stresa, e del crollo della cabina che ha causato quattordici vittime: avvenuto non per negligenza o sbadataggine, questo, ma per precisa e deliberata scelta, proprio la magistratura valuterà di chi e se in concorso di colpa, di perseguire come unico fine il profitto smisurato e scellerato, anche al costo della vita o dell’altrui morte, in un Paese dove prima si crepava di guerra, fame e carestia, oggi di turismo e tempo libero, mentre si continua a soccombere, nel vero senso del termine, purtroppo, di disoccupazione e sul luogo di lavoro, come testimoniato dal tasso spaventoso ed ingiustificabile di cosiddette morti bianche registrate anche nell’anno in corso a casa nostra. Pur a fronte, ed a scapito, della litania incessante e della nenia stucchevole e stomachevole sul bisogno di sicurezza, quando, intanto, da più parti si chiede la deregulation sfrenata che altro è dalla liberalizzazione e che dovrebbe incentivare la realizzazione di infrastrutture e grandi opere pubbliche e private e favorire il mondo dell’impresa, e il caporalato dell’agricoltura, ad assumere, o a meglio e più pervicacemente sfruttare la manodopera indigena ed immigrata, con un ricorso smodato ed immotivato alla pratica del subappalto che tante sciagure ha sventuratamente comportato e causa. Senza scordare la spada di Damocle del debito galoppante e moltiplicato esponenzialmente da Recovery Fund di provenienza europea, che pende sulla testa dei giovani dei decenni a venire, quelli spesso definiti con prosaico afflato i nostri figli e i nostri nipoti, cui si nega, peraltro, anche solo la remota possibilità di condizioni uguali di partenza nella sfida dell’esistenza rinnegando e truffando il principio di tassazione progressiva previsto dalla Costituzione ed opponendo discutibili argomentazioni ideologiche al prelievo una tantum di piccole somme sui grandissimi capitali – più di cinque milioni di euro posseduti, ndr – per assicurare loro un piccolo gruzzolo sul quale edificare il proprio futuro non alimentando la famigerata fuga dei cervelli, e dei cuori. E guardandosi bene dal tralasciare altre tematiche altrettanto importanti e cogenti, quali l’affermazione compiuta e l’emancipazione sostanziale delle donne, a cominciare dai salari loro corrisposti per le mansioni svolte, il rispetto della parità di genere, la tutela dei diritti delle persone di qualsiasi orientamento sessuale, gay, lesbiche, trans, queer, con il Disegno di Legge Zan arenato in commissione parlamentare e ragazzi che si tengono per mano aggrediti o accoltellati nelle piazze e per le strade delle nostre città, ritenuti colpevoli di amarsi e mostrarlo pubblicamente. Il quadro è sinceramente fosco e poco lusinghiero, per cui ci sarebbe nulla o poco da festeggiare: augurandoci che, se non altro, proseguano le vaccinazioni contro il Covid-19, l’auspicio è che sottolineando rigidamente i nostri difetti senza assumere un tono censorio da puritani o da setta, si possa provare a correggerli implementando le virtù italiche che furono e che, auspicabilmente, saranno. E per celebrare adeguatamente il compleanno della nostra Repubblica malandata e malconcia, che visibilmente arranca come gran dama affaticata cui non si ha l’accortezza gentile di porgere il braccio o un bastone, intendo rimembrare la frase pronunciata da Piero Calamandrei, padre costituente, il più citato e il meno ascoltato secondo i commentatori più avveduti, informati e accorti, il quale ebbe a dire ai suoi contemporanei che il referendum istituzionale del 2 giugno del ’46 fu e sarebbe stato l’unico attraverso cui uno stato sarebbe divenuto repubblica abbandonando la monarchia, senza guerre né spargimento di sangue. Che ci faccia buon pro, insegnandoci la ragione essenziale del nostro stare insieme da Trento, Trieste e Gorizia, fino a Cagliari, Palermo e Reggio Calabria.