Smemoranda
FABIO FALABELLACelebrazioni retoriche, dovere del ricordo e diritto all’oblio
In un saggio pubblicato qualche anno fa lo storico ed editorialista del Corriere della Sera, Paolo Mieli, ideatore e conduttore del fortunato format televisivo “Passato e presente” trasmesso da Rai Storia, teorizzava la terapia dell’oblio come cura necessaria degli uomini e delle società per liberarsi dei pesi delle esperienze pregresse e delle memorie negative che affliggono il vissuto degli uni, impedendo il pieno sviluppo delle altre. A mo’ di esempio, parlando di sistemi sociali, Mieli citava gli Stati Uniti d’America, capaci a suo dire e contrariamente al nostro Paese di fare i conti con la propria Storia, in un continuo processo di rinnovamento dalle magnifiche sorti e progressive. E, a sostegno della sua tesi, argomentava del superamento della guerra civile e della separazione tra nord e sud, della capacità di assimilazione di popoli diversi nella nazione del melting pot e delle cento e più nazionalità e della, oseremmo dire presunta, risoluzione della questione razziale nella dimora della Zio Tom. A dire il vero, anche Mieli, in uno sforzo di cancellazione o rimozione di argomenti scomodi o non congruenti col suo postulato, dimenticava volutamente o tralasciava lo sterminio del popolo dei pellerossa, gli Indiani d’America per un errore geografico e lessicale di Colombo e dei colonizzatori europei, tra i più dignitosi della Storia dei Sapiens, ridicolizzati in decine di film western, rinchiusi da più di un secolo a ballare coi lupi nelle riserve, consumati dall’abuso di alcol e viziati dal gioco d’azzardo nei casinò per gli Yankee benestanti. Nel celebre film “Non ci resta che piangere”, girato insieme con l’indimenticato ed indimenticabile Massimo Troisi”, Roberto Benigni avrebbe obbiettato che si sarebbe dovuto impedire alle tre caravelle della regina di Spagna, Isabella d’Aragona, di salpare da Palos de la Frontera il 3 agosto del 1492 per evitare questa immane tragedia. E, giova ricordarlo, ci sarebbe da discutere pure sulle insistenti differenze di possibilità esistenziali e di affermazione tra bianchi e neri, al netto e con buona pace della presidenza di Barack Obama o dei campioni del basket del NBA, di cineasti alla Spike Lee, considerata la sperequata unidirezionalità a tutela dei primi e a svantaggio dei secondi del sistema giudiziario e carcerario, le violenze diffuse di una polizia razzista e retrograda e gli innumerevoli casi di assassinii mirati ed intenzionali alla George Floyd. Perché, che piaccia o no e faccia gioco o meno alle proposizioni di Mieli, “Black lives matter”. Alle nostre latitudini, la settimana che ci lasciamo alle spalle ha visto la significativa commemorazione di due ricorrenze, una straordinaria, quella dedicata alle vittime del coronavirus, l’altra, ahinoi divenuta ormai consuetudinaria e giunta alla 26esima edizione, tenuta per ovvie ragioni dovute alla pandemia incessante attraverso manifestazioni quasi tutte allestite on line sabato 20 e domenica 21 marzo, dedicata alla memoria dei martiri innocenti di mafia, istituita dalla meritoria associazione “Libera” fondata da don Luigi Ciotti. Nella speranza di una ripartenza, in coincidenza con l’inizio della primavera si potrebbe auspicare una rinascita, anche il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi, ha preso parte alla cerimonia per piantare alberi dello scorso giovedì a Bergamo, città segnata per sempre ed in maniera indelebile dalle immagini dei camion militari che trasportavano le salme contenute nelle bare, troppo numerose nel picco acuto della prima fase dell’emergenza sanitaria, per trovare posto nel cimitero locale. Una iniziativa voluta fortemente dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cui dovranno però seguire in futuro azioni strutturali ed efficaci affinché, possibilmente e per quanto sia nelle nostre capacità, una catastrofe simile non possa mai più accadere, cominciando con la predisposizione necessaria ed improrogabile di un adeguato piano pandemico, che sia magari aggiornato e non redatto in modalità copia e incolla sulla scorta di quelli precedenti, che, peraltro, non hanno evidentemente funzionato. Il ricordo è importante, certo, non fosse altro che per dare dignità alle centinaia di migliaia di morti per Covid 19, purché, a nostro avviso, non si trasformi in una vacua e retorica celebrazione, come spesso accade e per troppi problemi dalle nostre parti, funzionale solo a voltar pagina stendendo sul passato ingombrante un velo pietoso utile a nascondere errori, colpe, disattenzioni e responsabilità. In tal senso, l’elenco dei nomi di chi non c’è più servirebbe esclusivamente a mo’ di lugubre lista degli assenti, come una lapide intestata agli eroi delle guerre mondiali o, peggio, al milite ignoto, senza che quanto accaduto insegni davvero qualcosa individualmente e collettivamente e funga da stimolo e pungolo alla costruzione di un futuro pubblico e privato migliore e più onorevole. È questo, del resto, il monito perentorio lanciato proprio da don Ciotti, che su droga e mafie racconta di un «silenzio ipocrita», spesso favorito e condiviso dalle Istituzioni: «Non è possibile», grida con moto profondo il prelato, e non è giusto e lecito, aggiungerei con garbo ed enorme rispetto nei suoi confronti e verso i militanti tutti della sua associazione, perché il rischio concreto di un’operazione del genere, dal sapore e dalla cifra “gattopardiani” affinché tutto cambi perché nulla sia sostanzialmente modificato, «il pericolo strisciante – chiosa amaramente Ciotti non celando la propria consapevole disillusione – è quello della normalizzazione». Nell’epoca digitale del diritto all’oblio ed alla cancellazione dei dati personali e sensibili dalla rete internet, appare utile rimembrare l’auspicio contenuto nella struggente opera letteraria di Ugo Foscolo, “Dei sepolcri”, in cui il vate nato nella greca Zante afferma che, se gli uomini in vita si portassero sempre accanto la presenza e la memoria della morte, essi vivrebbero con più coraggio e maggiore dignità e lo sforzo di trascinarsi questo fardello nell’anima gioverebbe anche all’immacolato ricordo dei defunti e dei propri cari. Il mio timore, in proposito, è che troppe occasioni ufficiali di commiato, come quella menzionata avvenuta nel capoluogo lariano, servano in maniera capziosa e strumentale allo scopo esattamente opposto, nell’intenzione neppure tanto velata di lavarsi la coscienza col bianchetto o con uno smacchiatore da lavatrice, buono per uno spot pubblicitario da più bianco non si può. Come se, giocando con le parole e col nome di un diario scolastico divenuto cult quando frequentavo ancora il liceo, tutte le buone intenzioni professate e declamate ai quattro venti e l’assegno delle cose che ci si propone di fare debbano immediatamente, un attimo dopo, essere messe da parte, rinchiuse e conservate soltanto negli elenchi e nelle pagine ad un tempo tristi ed ironiche delle “Smemoranda”. Meglio sarebbe, in tal senso, tenere seriamente ed ossequiosamente in testa l’imperativo cogente ed irrimediabile del Savonarola di Troisi e Benigni, «Ricordati che devi morire», lasciando in pace chi per sorte o altro è già andato via.