Tutti in campo con Draghi
FABIO FALABELLA“Di mille voci al sonito mista la sua non ha”
L’ascesa folgorante, benché attesa e da più parti evocata, del nuovo Napoleone della scena politica italiana meriterebbe in questo momento, forse, un’attesa fatta di riflessivo e rispettoso silenzio, come suggerirebbe il Poeta. Del resto Mario Draghi, che pure è personalità sicuramente geniale e a tutto tondo, capace, preparatissima, validissima e rispettata a livello istituzionale in Europa e altrove, non è ancora salito in solio, né ci si è accomodato, sebbene da Presidente del Consiglio incaricato dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, si appresti a condurre il secondo giro di consultazioni e, con verosimile certezza, a ricoprire nelle prossime ore l’incarico affidatogli, dopo aver completato la lista dei ministri che lo affiancheranno nel suo compito nelle ore drammatiche ma nemmeno troppo serie che sta vivendo, per l’ennesima volta, la Repubblica. Eppure il cronista attento e non immediatamente schierato a priori dalla parte dei sostenitori o dei detrattori, pochi in verità, all’apparenza, per ragioni strumentali, di interesse o di opportunità momentanea, non può esimersi a mio avviso da alcune considerazioni preliminari e non per questo faziose, su quanto sta accadendo sul proscenio della contesa partitica nostrana, né sul personaggio che sta per divenirne, ed in un certo senso lo è già, il protagonista indiscusso. C’è chi, tra i leader che non sono riusciti a comporre la crisi che ne ha determinato la convocazione immediata da parte del Colle, lo ha paragonato per l’estro a Roberto Baggio, chi, per la forza dirompente e l’efficacia impareggiabile, a Cristiano Ronaldo: in ogni caso è stato definito da tutte e tutti, o quasi, all’unisono e forse con atteggiamento capziosamente prono e benevolo, il miglior giocatore possibile; fortuna che, poiché ancora vivo e magari per rispetto del pibe, non sia stato messo a paragone con Maradona, quantunque ci si aspetti anche da lui la “mano de Dios”. Ebbene, scrivevo poc’anzi, le qualità del professor Draghi nel settore della Finanza e dell’Economia, della gestione della cosa pubblica o piuttosto privata sono, o si ritiene siano, indiscusse ed indiscutibili, le sue competenze basate su studi ed esperienza diretta probabilmente per molti inarrivabili: economista, accademico e banchiere formatosi all’Università di Roma “La Sapienza” e specializzatosi poi al MIT, il professore è stato dapprima un alto funzionario del Ministero del Tesoro e, dopo un breve passaggio in Goldman Sachs, nominato nel 2005 Governatore della Banca d’Italia, membro e Presidente del Financial Stability Forum, Direttore esecutivo per l’Italia della Banca Mondiale e della Banca Asiatica di Sviluppo, prima di sedere alla Presidenza della Banca centrale europea. Cionondimeno va posto qualche punto di questione rispetto alla sua nomina, pure plaudita e quasi osannata a 360 gradi come intuizione salvifica per le sorti del Belpaese, che sta appassionando i commentatori e gli addetti ai lavori, appunto, come se si trattasse di una partita di calcio, ha dichiarato Pierluigi Pardo evidenziando l’atmosfera di enfasi da prestazione sportiva, o di uno sprint degli Abbagnale meritevole del pathos di Giampiero Galeazzi dei tempi d’oro. Da Draghi, a proposito, ci si aspetta quasi l’avvio di una nuova era aurea di virgiliana memoria, come gli si attribuisse l’intrinseca capacità di esercitare per noialtri un effetto da “golden share”, con uno sforzo collettivo univoco ed all’unisono che in queste ore contribuisce a tratteggiarne pure gli aspetti umani: di quando giocava a pallone al college, ma secondo il suo compagno di studi statunitensi e politologo Gianfranco Pasquino era lento, letteralmente “una schiappa”, o di quando si reca da solo e senza scorta al supermercato per comprare latte e croccantini per il cane, teneramente immortalato in uno scatto mentre dà un bacio alla moglie. Una narrazione partigiana, parziale e di parte che serve a farne l’apologia per rendere digeribile ed addirittura condivisa la scelta di Mattarella, disegnando un personaggio più vicino a noi comuni mortali e non cristallizzato irrimediabilmente nelle stanze del potere da cui proviene e dove è stato da sempre. Del resto, se è vero che Draghi, da banchiere centrale e con la formula ormai famosa del “whatever it takes” pronunciato a Francoforte ha giocato un ruolo fondamentale nel tenere a bada i “falchi” sovranisti dei Paesi del nord Europa, Germania, Olanda e Danimarca su tutti, salvaguardando l’economia italiana da spinte eccessivamente inflazionistiche e frizioni insopportabili, lo è altrettanto il fatto innegabile che, col suo famigerato “bazooka”, con cui ha riempito di denaro e moneta sonante gli istituti di credito del Continente, a cominciare esattamente da quelli teutonici, non sia stato in grado di risolvere i problemi strutturali che ci vedono arrancare nei confronti di sistemi più performanti, povertà e precarietà del mercato del lavoro in testa. Per dirla con Luigi Pandolfi, amico personale e di questo giornale e firma economica del Manifesto, citando un suo recente articolo pubblicato sulle pagine del prestigioso quotidiano comunista, è caduto «nella trappola di Keynes: l’acqua è tanta, ma il cavallo non ha voglia di bere – e rischia di strozzarsi e affogare, ndr. Hai voglia di inondare le banche di soldi – scrive Pandolfi – se i salari sono troppo bassi, se la disoccupazione è alta, se le disuguaglianze aumentano, se gli investimenti pubblici languono». Ora fa specie che, ciononostante, nonostante la circostanza cioè che l’affermazione di Pandolfi, secondo cui il professore avrebbe persino rovinato l’economia di casa nostra, dopo essere stato tra i fautori più autorevoli delle privatizzazioni che ne avevano stroncato i parametri vitali decenni prima, andrebbe quantomeno indagata ed attentamente verificata, si assista invece, alle nostre latitudini, ad un incessante e preoccupante sfregarsi le mani da standing ovation nei suoi confronti, benché non abbia ancora toccato palla. Perché il match è appena cominciato, non ancora finito ed è ipotizzabile che sarà molto duro, al netto dell’abilità di Draghi di spendere i soldi di Bruxelles elargiti attraverso il Recovery Fund: e, piuttosto che lodarne i calci di punizione ad effetto sulla scorta di quelli del divin codino, dovremmo probabilmente preoccuparci della sua destrezza nel calciare i rigori nel momento decisivo per fare risultato, e a nostro favore, per quanto un giocatore, parafrasando De Gregori, non soltanto da ciò vada giudicato. Non sorprende in tal senso la apostolica fedeltà giurata dal Partito Democratico all’ex alunno dei Gesuiti, considerata la subalternità dei Dem nelle ultime legislature a qualsiasi formula calata dall’alto di tecnocrati e simili celata dalla autodefinizione di partito responsabile a spinta e visione europeista. Non stupisce che pure la Lega di Matteo Salvini, e soprattutto di Giorgetti, sia pronta a sudare “senza condizioni” la maglia per la partita del cuore, solleticata dalle voglie pruriginose del suo elettorato e degli imprenditori lombardo-veneti, che la pretendono in campo quale forza di governo, protagonista delle manovre che contano. Si taccia di centristi, costruttori e responsabili in questa sede, glissando sulla mania di Berlusconi di calcare il prato nelle sfide importanti, da Champions, per arrogarsi il successo e, magari, alzare per primo la coppa alla foto di rito con la sigla che va in mondovisione nell’attimo del trionfo a favore di telecamera. Meraviglia, certo, la virata da capogiro con triplo salto mortale effettuata dai Cinquestelle, una volta acerrimi nemici di massoni e capitale monopolistico, o almeno così dicevano, fautori del “vaffa” a prescindere dei confronti dei poteri forti e talora dal piglio messianico e purista caratteristico dei testimoni di Geova o delle sette puritane protestanti, oggi anch’essi dalla parte opposta per indossare la casacca tra i favoriti, al fianco delle vecchie glorie, guidati grottescamente dal guru che quegli epiteti da stadio aveva sdoganato nei palazzi all’assalto delle stanze dei bottoni. Scoraggia altresì, almeno per ciò che mi riguarda, che neppure uno straccio di ciò che rimarrebbe di un’opzione di sinistra, di un team magari non vincente ma più inclusivo che accolga anche i meno virtuosi, o meno abbienti, capeggiata e rappresentata ai massimi livelli dal già Ministro della Sanità, il lucano Roberto Speranza, non abbia battuto ciglio ed abbia reso immediatamente a super Mario fascia di capitano e onori, proferendo persino, chissà, al chiuso degli spogliatoi, la frase “Obbedisco!” di garibaldina ispirazione. Fuori sono rimasti Di Battista, a fare l’ultras sugli spalti senza neppure competere se non tra i suoi e come in allenamento, ad una porta sola, per non sporcarsi. E, nella compagine avversaria ma non troppo, Giorgia Meloni: la quale, faticherà per raccoglierne undici da schierare però spera di ricavarne consensi in termini di pubblico e percentuali alle urne se dovesse riuscire a segnare almeno un goal alla corazzata blu-stellata, tipo rovesciata di Pelè in “Fuga per la vittoria”. Per quanto ci riguarda e ci compete, non uniremo anche la nostra a questo sonito di voci scordate e discordanti, amplificate dall’eco mediatica che supporta Draghi e dal sostegno da majorette della stampa mainstream, quasi fossimo in presenza di una interrotta ed interminabile diretta da Tg Parlamento, o da Palazzo Chigi modello Casalino. Né presteremo allo scopo la nostra penna, ché il professore porta già in tasca la sua biro divenuta icona pop multicolore come un’opera di Andy Wharol: ci limiteremo, nel nostro piccolissimo spazio in panchina, a fare da cani da guardia accontentandoci del ruolo spassionato e forse poco entusiasmante di osservatori al Var, ugualmente necessario ed imprescindibile alla correttezza del risultato finale, al giornalismo e alla democrazia.