“Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”
FABIO FALABELLABreve digressione socio-antropologica ed economica sul calcio italiano dalla Longobarda alla Superlega
Peter Antony Allum, docente di Scienza Politica e Politica comparata presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, sosteneva che in Italia la democrazia era possibile soltanto in relazione al mondo del calcio. Sottolineando, con questa affermazione, la approssimazione evidente e strutturale del popolo italiano in termini di cultura democratica ed istituzionale, almeno secondo il suo punto di vista di accademico esule ed espatriato dalla Gran Bretagna perché in forte disaccordo, polemica e contrapposizione al governo della lady di ferro Margaret Thatcher, e contestualmente sottintendendo la possibilità di un dibattito consapevole, fondato e debitamente informato, alle nostre latitudini, solo se l’argomento in discussione, al bar o nei salotti televisivi, fosse stato e fosse tuttora quello del pallone, di squadre del cuore, classifiche e beniamini in maglia numero 9 o numero 10. La singolare proposizione, volutamente provocatoria ed accentuata dal professore, che la enucleava all’interno del manuale d’esame fornito ai suoi studenti, tra i quali ebbi la fortuna e l’onore di trovarmi, aveva a fondamento la passione smodata degli Italiani per il calcio e parrebbe trovare riscontro proprio in queste settimane a fronte della discussione, talora manichea e con forti divergenze di posizione, che si è scatenata anche qui da noi, e non solo, in merito alla questione della Superlega: il progetto fortemente voluto e patrocinato dal presidente del Real Madrid, Florentino Perez, cui avevano aderito in prima battuta salvo poi defilarsi anche Inter e Milan, patrocinato in serie A dal numero uno della Juventus, Andrea Agnelli. L’iniziativa, al momento sfumata ma, forse, solo apparentemente fallita, magari procrastinata a tempi migliori, è divenuta in un batter d’occhio il punto principale di confronto tra favorevoli e contrari, suscitando pareri ed opinioni divergenti, pur annoverando tra i suoi sostenitori personaggi del calibro dell’allenatore della Juve, Andrea Pirlo, ed alcuni esponenti della stampa mainstream, come il giornalista de “Il Sole 24 Ore” Lello Naso. Per costui ci sarebbero almeno dieci buone ragioni per essere a favore della Superlega, cui, oltre alle compagini di casa nostra ed ai “blancos” della capitale spagnola già evocati, ed ai sei sodalizi più prestigiosi, facoltosi ed importanti del football inglese, vale a dire Chelsea, Manchester United, Manchester City, Liverpool, Arsenal e Tottenham, avrebbero dovuto aderire di diritto anche Barcellona, Atletico Madrid, Bayern di Monaco, Borussia Dortmund e Paris Saint-Germain. Ragioni che, passate velocemente in rassegna, si estrinsecano nelle seguenti motivazioni: innanzitutto, secondo Naso, <<il tempo non si può fermare>> e, pertanto, sarebbe ora di cambiare, se è vero che <<nel 1898 il campionato di calcio si giocò in una sola giornata, a Torino>>, che <<poi si passò ai gironi regionali del Nord>> e, <<infine, nel 1929 al campionato unico nazionale, la Serie A>>, composta, peraltro, inizialmente da 16 formazioni, poi allargata a 18 e, dunque, a 20, quante ne sono oggi, solo in virtù ed in conseguenza di un ricorso presentato dal Catania, successivamente fallito, a fini di ripescaggio nella massima categoria. D’altra parte, sostiene Naso, <<la governance è una cosa seria>>, anche nel mondo del calcio, mentre, al contrario, <<Uefa, Fifa, federazioni e leghe nazionali, soprattutto quella italiana>>, avrebbero dato sovente, ed in special modo negli ultimi lustri, <<un’immagine di sé spesso imbarazzante>>, con la nostra paragonata ad una sorta di <<armata Brancaleone, governata da presidenti che non hanno nulla da invidiare al patron della Longobarda>>, la squadra allenata da Lino Banfi nelle vesti di mister Oronzo Canà, nella celeberrima ed esilarante pellicola del 1984 intitolata “L’allenatore nel pallone”. Argomentazione, quella che precede, su cui è difficile dissentire nel merito da ciò che sostiene Naso, se si guarda agli episodi di malcostume e spicciola corruttela che hanno coinvolto in passato esponenti quali il potentissimo Sepp Blatter, ne sa qualcosa il D10S argentino scomparso un anno fa e forse assassinato di proposito dai suoi medici. Ancora, c’è la discriminante da non ignorare, tanto più in epoca di pandemia da Covid 19, con gli stadi chiusi e i mancati introiti derivanti dalla vendita dei biglietti invenduti, dei diritti tv e delle necessarie sponsorizzazioni, considerando che <<non esistono più i ricchi di una volta>>, tra i presidenti delle squadre di calcio, alla stregua degli Agnelli, l’avvocato Gianni e suo fratello Umberto, e dei Moratti, Angelo e suo figlio Massimo, il più spendaccione per dilapidazione di patrimonio personale, circa un miliardo di euro, del resto guadagnato indebitamente sulle spalle dei lavoratori del comparto del petrolchimico sardo, che furono. Secondo il collega de “Il Sole”, infatti, <<le tv e gli sponsor contano>> e, <<se un broadcaster (una emittente per dirla in Italiano, ndr) spende circa un miliardo all’anno per il campionato di Serie A ed è disposto a spenderne quattro all’anno per la Superlega, in un modo o nell’altro bisogna dargli ascolto>>, se non si vuole tornare a quello che lui stesso definisce il tempo meraviglioso di “Tutto il calcio minuto per minuto”, inarrivabile trasmissione radiofonica di racconto e commento delle partite, che fu resa celebre dalle voci inconfondibili e indimenticabili di cronisti unici, del calibro di Sandro Ciotti ed Enrico Ameri. Senza dimenticare la mannaia del debito cospicuo di cui soffrono le squadre, tutte, che avevano aderito al progetto di Perez e Agnelli, con in testa, in Italia, proprio Juventus e Milan, come scrive in un articolo a sua firma Alessandra Gozzini su “La Gazzetta dello Sport”; che un modello simile alla Superlega è stato inventato, sperimentato e viene costantemente applicato nel basket, nel Vecchio Continente, dopo essere stato anch’esso fortemente avversato in prima battuta, o in prima schiacciata a canestro, si potrebbe chiosare nel caso di specie; e che, di fatto, il calcio in Europa resta l’unica, o tra le pochissime filiere in grado di primeggiare a livello globale nel mercato mondiale e di accumulare valore, tanto necessario ed imprescindibile per il capitale internazionale e per le società, che null’altro sono se non aziende multinazionali, almeno le più grandi, ancora capaci di attrarre la manodopera più qualificata e richiesta da altri continenti come il Sudamerica, come dimostra l’appetito dei grandi investitori cinesi e dell’estremo oriente e dei fondi finanziari di mezzo mondo nei confronti del calcio nostrano ed europeo. Cionondimeno, in tanti si sono scagliati contro quello che è stato definito per altro verso un azzardo speculativo, teso a fare del pallone un business in esclusiva per pochi ricchi a danno di tanti poveri o meno agiati, in virtù di una tensione accentrativa e monopolistica tipica dell’economia, scordando volutamente che <<il calcio è prima di tutto un sentimento>>, come afferma Mario Sconcerti in una analisi pubblicata lo scorso 19 aprile nelle pagine sportive del “Corriere della sera”: significativamente ed estremamente diffuso tra i tifosi che rappresentano ormai una <<vera, vasta classe media>>, in qualità di, sono sempre parole di Sconcerti, clienti dei club e consumatori di prodotti di mercato. E, se tra i principali oppositori vanno annoverati gli ultras nostalgici delle vecchie “firm” britanniche, capaci di impedire il grande passo ai dirigenti delle società per cui tengono e di indurli a fare una precipitosa retromarcia con tanto di scuse ufficiali, c’è da dire in realtà che voci di marcato disappunto, per utilizzare un eufemismo, sono state espresse da più ed innumerevoli parti, siano esse di addetti ai lavori o non: il nostro primo ministro Mario Draghi, il presidente Francese Macron, il premier britannico Johnson, al pari del presidente Uefa Aleksander Čeferin e di quello della Fifa, l’italo-svizzero di origini calabresi Gianni Infantino, del presidente federale della Federazione Italiana Giuoco Calcio, la Figc, Gabriele Gravina. Sarà pur vero che il calcio è cambiato, si pensi, ad esempio, in senso positivo, alla continua valorizzazione ed apprezzamento crescente di cui finalmente sta beneficiando anche in Italia il movimento femminile, grazie alle strepitose azzurre in rosa guidate dal capitano della nazionale Sara Gama, e che, per certi aspetti, si è imbruttito ed incattivito, con accezione negativa e peggiorativa, se paragonassimo i cori gutturali e violenti delle frange più estreme delle curve nostrane odierne con la colorata poesia dei tempi andati di un Nino d’Angelo in giubba celeste a sublimare l’immagine dei tifosi del Napoli di Maradona, ma lo sport più popolare del mondo resta in ogni caso un fenomeno sociale di portata vastissima, coinvolgente, appassionante, di cui milioni di supporters non riuscirebbero a fare a meno con il colpo di spugna tentato dai grandi club europei, pena la disaffezione e, quindi, il fallimento, anche solo utilizzando la lente di ingrandimento utile a giudicare la bontà e l’appropriatezza di una mera operazione di marketing. Assunto, questo, che non giustifica in alcun modo le rappresaglie minacciose perpetrate da idioti di cui è stato oggetto Niccolò Pirlo, figlio del grande ed indimenticato maestro con la numero 21 che alzava le braccia ciondolanti nella notte del cielo azzurro sopra Berlino, a margine della lotteria dei rigori contro la Francia di Zidane che vide trionfare Cannavaro e compagni. Per il solo fatto che papà Andrea, racconta Massimo Gramellini nella sua rubrica “Il caffè” del “Corsera”, abbia osato dirsi a favore della Superlega: parere comunque più che comprensibile, se si riflette sulla circostanza che Pirlo è a tutti gli effetti un dipendente della Juventus, pagato dal fondo Elliot che ne è proprietario. Nessuno, però, almeno per ora, potrà togliere ai tifosi bergamaschi l’emozione di veder competere i calciatori della Dea con più blasonati avversari, magari affermandosi, vincendo e sciorinando il magnifico calcio teorizzato e messo in opera sul rettangolo di gioco da quel visionario che porta il nome di Giampiero Gasperini. E un giocatore, si sa, lo cantava Francesco De Gregori incitando il suo Nino a <<non aver paura di tirare un calcio di rigore>>, perché, con buona pace delle magie, delle performances e dei compensi milionari dei Ronaldo e dei Messi, in fin dei conti, <<lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia>>. Gli altri, altresì, quelli schierati in Superlega col rischio concreto di non poter più indossare la casacca delle proprie nazionali, saranno e sarebbero <<giocatori tristi che non hanno vinto mai>>, in un contesto ed in un torneo in cui, come alla play station, si giocherebbe per la sola raccolta pubblicitaria e vincitori e perdenti, promozioni e bocciature, non dipenderebbero dai traguardi raggiunti sul campo, bensì dal portafogli posseduto. Perché il calcio, quello vero, è un sogno per molte e molti e tale dovrebbe essere, uno sport che faccia spettacolo prima, ben prima, che l’affare multimiliardario che è diventato. Di quei sogni belli ed irripetibili da notti magiche, con le note suadenti di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, il divin codino di Roberto Baggio e le sue serpentine ammalianti e gli occhi spiritati di Totò Schillaci dopo un goal memorabile ad Italia ’90, o il sorriso generoso ed ingenuo di Paolo Rossi in Spagna nell’82, con l’epopea estasiata ed estatica del presidente partigiano ed esperto di carte, Sandro Pertini. Un sogno talora velato dalla triste e nostalgica saudade di Aristoteles che vuole il suo Brasile, quello verde oro del profeta, centrocampista barbuto della Fiorentina, Sócrates, al secolo Sócrates Brasileiro Sampaolo de Souza Vieira de Oliveira. Un sogno immaginifico dove, sebbene in forma di fiction, la Longobarda se la possa giocare e vedere alla pari, senza accordi sottobanco con De Sisti, con gli allievi di Nils Liedholm, provando a primeggiare e, quantomeno, a divertire, senza perdere la dignità di donne e uomini tra calcioscommesse e retrocessioni pilotate ed indotte per interesse. Non sappiamo, concludendo, se, anche a fronte delle dichiarazioni del patron del Torino, Urbano Cairo, e dell’allenatore del Sassuolo che non voleva mandare i suoi giocatori a San Siro, l’eclettico De Zerbi, Andrea Agnelli, già capo dell’Eca (European Club Association) si sia sentito <<preso per un coglione>>, in senso metaforico e letterale, come il guitto di Andria, il nonno Libero che, nella vita, di nome fa Pasquale Zagaria. A nostro modesto parere, certo, non si è comportato da eroe, accecato da un avido intento, ridicolizzato da un vigliacco dietrofront di convenienza. Uno slogan riecheggiava sugli spalti del San Paolo di Fuorigrotta, quando chi scrive era ancora un ragazzo, che mi piace ribadire in questo editoriale a mo’ di epigrafe volitiva e testamentaria, perentoria: <<no al calcio moderno, no alla pay tv>>!