Un nome nella rosa
FABIO FALABELLACliché quirinalizi di genere e giochi di palazzo: perché la rielezione di Mattarella rappresenta il fallimento della politica italiana
Ben prima della lettura da parte del Presidente della Camera, Roberto Fico, del cinquecentesimo quinto suffragio attribuito dai grandi elettori a Sergio Mattarella, che risultava così, con il superamento del quorum previsto dalla maggioranza semplice, tecnicamente rieletto alla carica di Presidente della Repubblica, come sottolineato dall’applauso di rito scoppiato in aula, si era capito che la candidatura della diplomatica Elisabetta Belloni, capo dei Servizi segreti nostrani, aveva rappresentato soltanto un maldestro tentativo, forse strumentale, di parte dello schieramento politico che sostiene il governo Draghi di addivenire ad un accordo su di un candidato nuovo e condiviso da proporre all’assemblea come idoneo a ricoprire la massima carica dello Stato e delle Istituzioni repubblicane prevista e contemplata nella Carta Costituzionale. Solo un nome da sciupare, l’ennesimo, nella rosa, repentinamente fiorita e appassita dei profili considerati dai leader e dai segretari di partito dell’intero arco costituzionale all’altezza di ruolo e funzione così prestigiosi e delicati, alla luce del particolare contingente storico che il nostro Paese sta attraversando, a fronte di una crisi sistemica della rappresentanza, di un’economia in ripresa ma minata dalla spada di Damocle dell’inflazione galoppante, trascinata dall’aumento vertiginoso dei costi di energia e materie prime che genera sempre maggiori disuguaglianze nel tessuto sociale tra ricchi e poveri, garantiti e non, e della pandemia da Covid-19 che ormai fiacca i muscoli dei contagiati ed il tessuto sociale da più di due anni. In barba al post dal tono trionfante del fondatore del Movimento Cinque Stelle, Beppe Grillo, a ridosso dell’annuncio del venerdì sera di Matteo Salvini e Giuseppe Conte, in cui il comico ligure si felicitava della notizia augurando buon lavoro alla “signora Italia”, ancora una volta l’aspirazione di veder salire sul colle più alto di Roma, nel palazzo che fu residenza di papi e dei Savoia prima che vi mettesse piede Enrico De Nicola il 28 giugno del 1946, veniva in tal modo subitaneamente frustrata e la suggestione, immediatamente bocciata da Matteo Renzi di Italia Viva, svaniva in un batter di ciglio e moriva sul nascere prima ancora che potesse sostanziarsi come un’opzione concreta su cui discutere e chiamare alla conta deputati, senatori e rappresentanti delle autonomie regionali. L’unica donna al Quirinale, purtroppo, resterà una receptionist, la commessa in tailleur che ha accolto i presidenti Fico e Casellati recanti la nota del computo elettorale. Senza addentrarsi in argomentazioni su questioni di genere e sul gap di rappresentanza che le donne tuttora patiscono alle nostre latitudini, ai vertici tanto delle organizzazioni pubbliche che di quelle private, benché alcuni trend lascino ben sperare per il futuro in una tardiva e troppo a lungo auspicata inversione di tendenza, ai commentatori più accorti, dunque, sia che avessero preso parte alla maratona condotta come di consueto su La7 da Enrico Mentana, sia che ne fossero rimasti fuori, non restava che constatare ad un tempo la speranza svanita, e probabilmente neppure sinceramente nutrita da molti, di appendere il fiocco rosa al Quirinale ed il fallimento della classe politica nostrana, incapace, come si dice in gergo, di trovare la quadra se non all’ottava votazione sulla riconferma di Sergio Mattarella. Questi, il tredicesimo Presidente della Repubblica, che si appresta dal 3 febbraio prossimo, quando leggerà il suo messaggio alle Camere riunite in seduta comune, a dare corso al suo secondo mandato, eccezione concessa in passato e per un scorcio temporale inferiore al settennato statuito in Costituzione solo a Giorgio Napolitano, ha ricevuto in suo favore 759 voti (il secondo nella storia dopo Sandro Pertini, acclamato con un plebiscito di 832 preferenze e detentore del record dei consensi) e non può che riscuotere anche la nostra empatica simpatia, intellettuale e di corde, da figlio del Sud qual è, da galantuomo che ha vissuto sulla propria pelle, da ragazzo, raccogliendo il corpo esanime di suo fratello Piersanti, gli effetti di una delle principali tragedie, se non la più grave, che hanno scosso ed umiliano la nostra coscienza civica, la mafia, da integerrimo servitore dello Stato e delle Istituzioni come si è dimostrato anche durante il suo breve discorso di accettazione della sua rielezione, comunicatagli dai presidenti di Camera e Senato, Fico e Casellati, rimettendosi alla volontà sovrana del Parlamento sebbene avesse più volte manifestato il suo desiderio di ritirarsi a vita privata per opportunità politica e di avere differenti intenzioni personali, più intime e amene, da perseguire. E, ciò nonostante, l’esito appena descritto ed il bailamme cui si è assistito nella settimana di votazioni, pone la necessità di alcune riflessioni su quanto accaduto e sul futuro prossimo della cosa pubblica, appunto, in dicitura latina, “res publica”. Ci troviamo innanzitutto di fronte al fallimento delle aspirazioni del segretario della Lega, Matteo Salvini, di proporsi quale king maker della contesa ed accreditarsi agli occhi dell’elettorato come sapiente tessitore di ardite trame costituzionali: “questo è un altro capolavoro tuo”, potremmo dire, a lui rivolgendoci, citando indebitamente le parole di Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello e sicuri di interpretare il sentimento condiviso da gran parte dei nostri connazionali, se minimamente informati, non schierati aprioristicamente sul suo versante e se in buona fede. Il Matteo dallo slogan facile esce bastonato da questa competizione, impallinato da Berlusconi e strattonato dal suo compagno di partito, il Ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, e dai suoi governatori a trazione Fedriga. Né sono valsi a nulla in proposito i suoi goffi azzardi di dissimulare a favore di telecamera il risultato della partita presuntuosamente giocata e palesemente e malamente persa, per la gioia recondita di Giorgia Meloni, cui pur nella diversità di posizioni dalle nostre, vanno tributati un certo spessore ed una calcolata ma innegabile coerenza, sua e di tutti i Fratelli d’Italia che, dall’opposizione e non avendo votato Mattarella, si candidano ad apparire credibili nei confronti dell’elettorato in vista delle prossime consultazioni amministrative e politiche che segneranno pure il passo e l’orizzonte dell’esecutivo in carica. Dall’altro lato, tralasciando in questa sede le fibrillazioni interne a Forza Italia, capace di bruciare volontariamente una propria candidata e mettere alla berlina la seconda carica dello Stato, la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, di cui alcuni retroscena riportano una telefonata burrascosa col Cavaliere di Arcore, scalzato da cavallo e rimesto senza sella prima che la giostra iniziasse, hanno fatto a gara un po’ tutti, immediatamente dopo il voto se non ancora ad urne aperte ad intestarsi un risultato giudicato, chissà quanto a giusta ragione, come eccellente e come il massimo che si potesse desiderare e pretendere. Ha cominciato il segretario del PD Enrico Letta, apparso in conferenza stampa insieme con la capogruppo a Montecitorio Debora Serracchiani, mentre le votazioni erano ancora in corso, rivendicando la conduzione di una strategia che ai lettori dei quotidiani ed agli spettatori assuefatti delle dirette tv è apparsa in realtà inesistente, considerato che la prima scelta dello stesso Letta era quella che convergeva sul Presidente del Consiglio Mario Draghi. E, pertanto, le esultanze da tribuna di stadio coi pugni chiusi e i “cinque” scambiati con deputati e senatori Dem sono apparsi quantomeno inadeguati e per certi aspetti surreali, anche in considerazione delle dichiarazioni rilasciate dallo stesso Letta sulle difficoltà del quadro politico che ci attende. In tutta onestà va invece riconosciuta una parziale affermazione a Matteo Renzi e ai suoi fedelissimi, Maria Elena Boschi in testa, che avevano proposto Mattarella alla scorsa elezione sette anni orsono, non avevano oltremodo caldeggiato l’ascesa di Draghi ed il suo trasferimento da Palazzo Chigi e, come già evidenziato, non avevano nascosto remore di fronte al profilo della Belloni, considerato assolutamente di prestigio e di alto profilo ma inadatto a ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica che non sarà vacante neppure per un attimo, precisamente per la sua provenienza dagli apparati dei Servizi di cui è alla guida, al netto della sua riconosciuta capacità e della universalmente conclamata imparzialità che ne ha contraddistinto la brillante carriera cominciata alla Farnesina. Lasciando un pietoso velo sul silenzio assordante proveniente da ciò che resta della sinistra di casa nostra, con il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ed il deputato naufrago Nicola Fratoianni praticamente non pervenuti e, solo in parte a nostro avviso, per ragioni di numeri a disposizione, ciò che va assolutamente registrato in presunta area progressista è la faida interna che si è scatenata un istante dopo la comunicazione ufficiale a Mattarella in casa Cinquestelle tra il leader politico, che non siede in Parlamento, Giuseppe Conte, e il Ministro degli Esteri e vero burattinaio dei suoi, Luigi Di Maio, che attraverso un paio di frasi neppure troppo sibilline a microfoni accesi ha lanciato un guanto di sfida al suo contendente nel Movimento preannunciando una resa dei conti e cristallizzando le frizioni che scuotono le diverse anime dei grillini. Se anche a lui va attribuita la pronta indisponibilità alla candidatura di Elisabetta Belloni, la predilezione perché Draghi restasse al governo e un certo appeal per Sergio Mattarella, non si possono altresì omettere o dimenticare le sue baldanzose ed oltraggiose tesi quando, aizzando le proprie folle da un palco, proponeva l’impeachment per lo stesso Mattarella che non aveva acconsentito a dargli l’incarico di formare un esecutivo dopo le elezioni del 2018 e che veniva perciò considerato colpevole, a suo distorto modo di vedere o far intendere, di alto tradimento e di attentare alla Repubblica e alla Costituzione. L’adagio per cui “tutto cambia perché nulla cambi” di “gattopardiana” memoria, d’altro canto, risulta solo parzialmente fondato: se è vero che la rielezione di Mattarella ha blindato in un certo senso il governo Draghi da lui promosso e preteso, ingessando il contesto politico-istituzionale di riferimento ed assicurando con una proroga di garanzia la posizione del premer, che, infatti, ha salutato con un commento di soddisfazione per le sorti del Paese la conferma in carica del Presidente uscente, è altrettanto verosimile che, da oggi stesso, comincerà un lungo anno di campagna elettorale in cui verranno sferrati colpi bassi a destra e a manca, con battaglie all’ultimo sangue, ci sia passata la metafora truculenta, tra le coalizioni in campo, i vari partiti, nonché all’interno degli stessi, tra le diverse correnti che li compongono e si contendono il potere. Che lascia presagire ulteriori elementi di incertezza indecifrabile ed estrema fluidità di posizioni e intendimenti, tanto più in virtù della riduzione dei parlamentari, e delle poltrone disponibili quindi, con la possibile scomparsa di alcune formazioni esistenti e la presumibile scomposizione e ricomposizione di quelle che definiscono lo schieramento politico, senza la possibilità di escludere prioritariamente processi di parcellizzazione e frantumazione acuta di squadre e sostituzione di interpreti del nuovo corso, se, come ha sostenuto l’editorialista del Corriere della Sera, Massimo Franco, l’azione di Draghi diventerà più incisiva e stringente e, per converso, più rigida nei suoi confronti l’opposizione dei leader di partito nel proporre in maniera intransigente e di puntiglio propri cavalli di battaglia nell’agenda dell’esecutivo nel timore di una emorragia di voti nel proprio elettorato di riferimento, stante la condizione di maggioranza allargata ed inusitata, sicuramente spuria, che sostiene l’attuale compagine governativa. Intanto, oltre a quello della Belloni, vanno consegnati agli archivi parlamentari ad uso dei memorialisti altri nomi, petali strappati e passati nel tritacarne dei giochi di palazzo: quelli di Casini – che si è sfilato con una certa signorilità ed un garbo istituzionale da Prima Repubblica per lasciare il passo a Mattarella, ndr – Amato, Cassese, Nordio, Di Matteo, Cartabia e persino, per posticcia ed ingiustificabile goliardia, dell’inviato della popolare trasmissione sportiva di Radio Rai, “Tutto il calcio minuto per minuto”, il collega giornalista Filippo Grassia, che ha raccolto due preferenze nello spoglio. Per conto nostro e come è nostro abito e costume, pur nella stima profonda riversata nella persona del Presidente Mattarella da un punto di vista personale e professionale, come uomo e politico, non ci uniremo nemmeno questa volta al coro all’unisono di felicitazioni dei suoi tifosi o apologeti della prima e dell’ultim’ora, nella consapevolezza del tracollo generale e generalizzato che la sua rielezione, ahinoi, irrimediabilmente attesta. Nell’unica speranza che, tra le questioni aperte che vorrà tenere a mente e a cuore, nella compagnia fidata dei suoi principali consiglieri, il Segretario generale Ugo Zampetti ed il suo portavoce, quel Giovanni Grasso che su Twitter pubblicava foto degli scatoloni per il trasloco sospeso e durante il lockdown gli muoveva appunti sulla pettinatura, ci sia anche quella meridionale, sempre cogente e che tuttora, insistentemente, ci preme.